Autunno. Adagio molto.
Mi sono sempre chiesto perché mio padre mi abbia parlato così poco del suo amore per la musica. Io lo ricordo carradore, gran lavoratore di falegnameria e di piccola carpenteria, in una bottega che ha visto tanta parte della mia infanzia. Poi ancor prima dei miei vent’anni l’ho perso, io via da Massa. Lui a ‘bottega’, sempre più stanco. Ogni volta, le poche volte, che ero tornato dal sud a trovare lui e mia madre, avevo scoperto due genitori velocemente invecchiati e un pochino tristi, serenamente rassegnati a una quieta solitudine, in attesa di un epilogo senza drammi.
Sono scomparsi in silenzio, senza complicare la vita a nessuno, prima uno poi l’altra. E lui la musica se l’è portata con sé: arie vivaldiane, rossiniane e verdiane, trionfi wagneriani e ricami mozartiani che seguiva attento, negli ultimi anni della sua vita, alla radio o su un modesto grammofono nel salottino di casa, spazio minuscolo, in comunione con mia madre indaffarata due passi più in là in cucina.
Dalla prima infanzia mi giunge ogni tanto qualche accordo fugace di violino, strumento che suonava da giovane, spesso con zio Nando, violoncellista autodidatta. Violino e violoncello sono finiti chissà dove.
Mi resta un’ombra stinta di musica, un accenno appena riconoscibile di melodia.
E questa foto dei due fratelli.
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